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La perdita dei luoghi santi della cristianità
Steven Runciman
Storia delle Crociate - 1951
L'abominazione della desolazione
Capitolo 1
«Quando dunque avrete veduta l'abominazione della desolazione,
della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo...»
Matteo - XXIV, 15
In un giorno di febbraio dell’anno 638 d. C. il califfo Omar entrava nella città di Gerusalemme cavalcando un cammello bianco. Indossava vesti logore e sporche e l’esercito che lo seguiva era rozzo e incolto, ma perfettamente disciplinato. Al suo fianco si teneva il patriarca Sofronio, in qualità di magistrato più importante della città che si era arresa. Omar cavalcò direttamente verso l’area del Tempio di Salomone da cui il suo amico Maometto era salito in cielo. Osservandolo in quel luogo, il patriarca si ricordò delle parole di Cristo e mormorò tra le lacrime: «Ecco l’abominazione della desolazione di cui ha parlato il profeta Daniele».
Poi il califfo chiese di visitare i santuari dei cristiani e il patriarca lo condusse alla chiesa del Santo Sepolcro dove gli mostrò tutto quello che c’era. Mentre si trovavano nel tempio si avvicinò l’ora della preghiera per i musulmani e il califfo domandò dove avrebbe potuto stendere la sua stuoia per la preghiera. Sofronio lo pregò di rimanere dov’era, ma Omar uscì nel portico del Martyrion, per timore - disse - che i suoi fanatici seguaci potessero rivendicare per l’Islam il luogo dove egli aveva pregato. Cosi infatti avvenne: il portico fu preso dai musulmani, ma la chiesa rimase, come per il passato, il santuario più venerato della cristianità.
Questo era consentito dalle condizioni di resa della città. Il profeta in persona aveva’ ordinato che, mentre ai pagani doveva venir offerta la scelta fra la conversione e la morte, al Popolo della Bibbia, cioè ai cristiani e agli ebrei, venisse concesso di conservare i loro luoghi di culto e di usarli senza restrizioni; essi però non avrebbero potuto aumentarne il numero, né avrebbero potuto portare armi o andare a cavallo; in cambio avrebbero dovuto pagare una speciale tassa personale, chiamata la jizya. Sofronio non aveva certamente sperato in migliori condizioni di resa quando era andato, cavalcando il suo asino e con un salvacondotto, a incontrare il califfo sul Monte degli Ulivi, dopo aver rifiutato di consegnare la città a un subalterno.
Gerusalemme era stata assediata per oltre un anno, ma gli arabi, inesperti nella guerra d’assedio e male attrezzati per condurla, si erano dimostrati impotenti contro le fortificazioni restaurate di recente. Nella città però le scorte di viveri si stavano esaurendo e non c’era più nessuna speranza di soccorso: la regione era nelle mani degli arabi e ad una ad una le città della Siria e della Palestina erano cadute in loro potere; l’esercito cristiano più vicino si trovava in Egitto, con l’unica eccezione della guarnigione che resisteva a Cesarea, sulla costa, protetta dalla flotta imperiale. Tutto quello che Sofronio poté ottenere dai conquistatori, oltre alle normali condizioni di resa, fu l’autorizzazione per i funzionari imperiali di mettersi in salvo con le loro famiglie e con i beni mobili sulla costa, a Cesarea.
Questo fu l’ultimo atto pubblico del patriarca, il culmine tragico di una lunga vita spesa in fatiche per l’ortodossia e per l’unità della cristianità. Dai tempi della sua giovinezza, quando aveva visitato con il suo amico Giovanni Mosco i monasteri dell’Oriente per raccogliere detti e storie di santi per la loro opera Pascoli spirituali, fino ai suoi ultimi anni quando, dopo essersi opposto alla politica dell’imperatore era stato allontanota e designato alla importante sede di Gerusalemme, egli aveva lottato fermamente contro le eresie e il nazionalismo nascente, che, prevedeva, avrebbero smembrato l’impero. Ma «il difensore della fede dalla parlata dolce come il miele», come veniva chiamato, aveva predicato e lavorato invano: la conquista araba era la dimostrazione del suo fallimento e poche settimane dopo moriva di crepacuore.
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