l'8 settembre del '43Le incompiutezze della memoriaa. Gli intentiIl testo che segue affronta un argomento in sé determinato: la titolazione del Corso principale di Trebisacce a Vittorio Emanuele III di Savoia. L’intento è di aprire un dibattito pubblico sul valore o meno della memoria storica di Vittorio Emanuele III per titolare una delle principali vie di Trebisacce. Malgrado l’indicazione di voto filomonarchica espressa dai calabresi e dai trebisaccesi stessi in occasione del referendum del 2 giugno del ‘46, la nostra Italia di oggi ha un chiaro assetto repubblicano e democratico; ed è il caso di ricordare che la forma istituzionale nostra odierna è nata dalla Resistenza all’occupazione nazifascista, promossa dopo l’8 settembre da tutto l’insieme delle forze politiche diversamente liberali, democratiche e popolari che nel ventennio fascista furono poste fuori legge e duramente represse. b. il punto chiaveLa necessità di un referendum, che facesse emergere la natura della nuova sensibilità popolare italiana, fu imposta dal Comitato di Liberazione Nazionale al Re ed al suo governo provvisorio sin dai primi contatti nei giorni iniziali della lunga guerra civile che si concluderà con il 25 aprile del ‘45. Le imputazioni di inadeguatezza dell’istituto monarchico rimontavano a colpe inoccultabili e gravi dell’ultimo re dei Savoia. In primo luogo di aver trovato piena concordia con Mussolini nell’assetto totalitario e illiberale del Regime, poi nell’averne avvalorato la politica estera di alleanza con la Germania nazionalsocialista e condiviso con piena acquiescenza le leggi razziali del ‘38. Soprattutto, la monarchia sabauda veniva accusata della più piena inadeguatezza in ragione del carattere e delle finalità della sua gestione della crisi seguita all’invasione della Sicilia da parte degli Alleati; per la fuga di re Vittorio Emanuele III da Roma all’alba del 9 settembre. c. un re senza orgoglio e senza onoreNell’Italia rivoluzionata dagli avvenimenti del 25 luglio del ‘43 e dalla fine del fascismo, le direttive importanti furono in mano al Consiglio della Corona; in esso il Capo di Stato Maggiore Generale Vittorio Ambrosio ebbe un ruolo assolutamente determinante, in modo del tutto autonomo dal Consiglio dei ministri, pur esso presieduto da Badoglio, il nuovo Capo del governo. Di tale organismo facevano parte anche il Maresciallo Badoglio, il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Roatta e il comandante dei servizi segreti Giacomo Carboni: tutti in ruoli paritari ma subordinati al Re, che aveva riassunto in sé il titolo di Capo delle forze armate. Il re d’Italia che il 9 settembre si pone in fuga in automobile sulla via Tiburtina dirigendosi verso Ortona in Abruzzo, per imbarcarsi su una motonave che deve condurlo a Brindisi in salvo, di fatto consegna la Capitale in mano alla furia vendicatrice nazista, e lascia oltre 2 milioni di soldati completamente allo sbando e senza direttive. L'illusione che sino a quel giorno ha guidato tanto il re, quanto il capo del governo Badoglio e tutto l’alto comando italiano nella fase di gestione dell’armistizio è che sia possibile cambiare il fronte delle alleanze, sostituendo la Germania con gli Stati Uniti e l'Inghilterra, e al tempo stesso preservare la propria centralità nello spazio istituzionale italiano del futuro. Si prescinde e si ignora il dato centrale che l'orientamento e la guida degli Alleati dal marzo dello stesso anno e dalla Conferenza di Casablanca, gennaio 1943, si uniforma semplicemente al principio della richiesta per gli sconfitti di una resa senza condizioni. La cura e la considerazione della necessità della salvaguardia personale, di ogni componente dell'alto comando italiano, del re, come pure di Badoglio, di Ambrosio, di Roatta e degli altri, viene anteposta ad ogni considerazione e cura della propria responsabilità dinanzi al destino della nazione. Tutto l'alto comando italiano è in preda al terrore della ritorsione prevedibile dei tedeschi. Con l'annuncio dell'armistizio il giorno 8 settembre ‘43, due milioni e mezzo di soldati italiani, soldati del Regio esercito, sono lasciati a se stessi e alla improvvisazione dei loro comandanti. Eppure non tutti hanno deposto il proprio senso dell'onore come i membri dell'alto comando, compreso il re: dalle prime ore del 9 di settembre alcuni reparti dell'esercito italiano dislocato a Roma decidono autonomamente il proprio impegno a difesa della Capitale contro i nuovi nemici: i tedeschi. Si combatte a Mentana, Bracciano, Monterotondo… L'armistizio sorprende all'estero quasi 600.000 militari italiani già logorati da tre anni di guerra e di sconfitte: sono in Francia, nei Balcani, in Grecia e nelle isole dell'Egeo. Anche in questi territori come in Italia è il caos; non si sa quante unità abbiano ricevuto le disposizioni della memoria riservata Op44 e l'incertezza vissuta dai militari in patria qui è amplificata dalla distanza. Tantissimi di loro vengono catturati nei primi giorni, come accade quasi per intero alla quarta armata in Francia. I militari fatti prigionieri in Italia come all'estero vengono trasferiti nei lager di Germania e Polonia: qui diventano IMI, internati militari italiani, utilizzati dai tedeschi come lavoratori schiavi e costretti a un durissimo regime di detenzione. In Grecia, a Cefalonia, si consuma l'episodio più tragico e famoso con la resistenza prima e lo sterminio poi della intera 33ª Divisione di fanteria Acqui, comandata dal generale Antonio Gandin. Sul tema del timore per le reazioni naziste alla resa ed all'uscita dalla guerra dell'Italia l’8 settembre 1943 ci sono dei fatti che non possiamo non ricordare: il 28 luglio, subito dopo l'arresto di Mussolini, quando si temeva un colpo di mano dei tedeschi, Vittorio Emanuele III aveva ordinato al generale Puntoni di predisporre tutto per una eventuale partenza da Roma: « Non voglio correre il rischio di fare la fine del Re del Belgio », aveva detto. Nello stesso giorno dell’armistizio, Vittorio Emanuele III curò di affidare ad un dignitario di corte i gioielli della corona per il valore di due milioni di dollari perché li mettesse in salvo, e furono inoltre predisposti 40 carri merci che dovevano trasportare sculture, argenteria e beni all'estero per essere posti in salvo. Sono questi i fatti e gli elementi sicuramente importanti che hanno dato discredito in quel preciso contesto alla monarchia italiana ed alla sua memoria.
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