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L'attentato a Sarajevo del 1914


clark

Christopher Clark

I Sonnambuli


Come l'Europa arrivò alla Grande Guerra

Parte Terza:

La Crisi

Capitolo 7: Assassinio a Sarajevo

L'attentato

La mattina di domenica 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, e sua moglie Sofia Chotek von Chotkowa und Wognin arrivarono in treno a Sarajevo e salirono a bordo di un’autovettura, imboccando il lungofiume Appel per raggiungere il municipio. Il corteo era formato da cinque automobili. Nella prima c’erano il sindaco di Sarajevo, Fehim Effendi Čurčić, che indossava un fez e un abito scuro, e il commissario di polizia della città, il dottor Edmund Gerde. Dietro di loro, nella seconda vettura, una splendida coupé Graef und Stift con la capote abbassata in modo che i passeggeri potessero essere visti dalla folla che fiancheggiava il percorso, sedevano l’arciduca e la sua consorte. Di fronte a loro, sul sedile ribaltabile, c’era il generale Oskar Potiorek, governatore della Bosnia. Nel sedile passeggeri anteriore, a fianco dell’autista, sedeva il tenente colonnello Franz von Harrach. Seguivano altre tre automobili che trasportavano poliziotti locali e membri del seguito dell’arciduca e del governatore.

Quando le vetture imboccarono il lungofiume Appel, un ampio viale che corre lungo l’argine del fiume Miljacka attraversando il centro di Sarajevo, davanti agli occhi della coppia si presentò una pittoresca veduta. Sullo sfondo del fiume, che sgorga da una gola posta ad est proprio sopra la città, si stagliavano i ripidi versanti delle colline, punteggiati in basso da ville e case circondate da frutteti. Ancora più su, si intravedevano i cimiteri, con le loro lucenti macchie di marmo bianco, contornate da scuri abeti e da sprazzi di nude rocce. Fra gli alberi e gli edifici che fronteggiavano il fiume, si potevano scorgere i minareti di numerose moschee, ricordo del passato ottomano della città. Nel cuore della città, proprio sulla sinistra del lungofiume Appel, c’era il bazar, un labirinto di viuzze fiancheggiate da baracche di legno riparate dal sole, il cui retro dava su magazzini in pietra. Commercianti di tappeti, fruttivendoli, sellai, calderai, venditori di ogni genere svolgevano là il loro mestiere, ognuno nello spazio assegnatogli. Una piccola costruzione al centro del bazar offriva gratuitamente caffè ai poveri, a spese del waqf, un’istituzione di beneficenza ottomana. Il giorno prima era stato freddo e piovoso, ma la mattina del 28 giugno la città era immersa in una calda e assolata atmosfera.

Gli austriaci avevano scelto una data infelice per la loro visita. Nel 1389, nel giorno di San Vito, le forze ottomane avevano distrutto un esercito guidato dai serbi a Kosovo Polje (Campo dei merli), ponendo fine al dominio dell’impero serbo nei Balcani e creando le precondizioni per la successiva integrazione nell’Impero ottomano di quel che rimaneva della Serbia. Nel 1914 le commemorazioni di quell’evento che si tenevano in tutti i territori serbi sarebbero state particolarmente sentite, perché quella era la prima ricorrenza di San Vito dopo la «liberazione» del Kosovo con la Seconda guerra balcanica, combattuta nel 1913. «La sacra fiamma del Kosovo, che ha ispirato generazioni [di serbi], si è trasformata adesso in un fuoco potente», annunciò il 28 giugno 1914 «Pijemont» [Piemonte], il giornale della Mano Nera. «Il Kosovo è libero! Il Kosovo è vendicato!» Per gli ultranazionalisti serbi, sia all’interno della stessa Serbia sia nella rete irredentista operante in Bosnia, l’arrivo a Sarajevo dell’erede al trono in quel giorno speciale rappresentava un affronto simbolico che esigeva una risposta.

Sette terroristi organizzati in due cellule si riunirono in città nei giorni precedenti la visita. Il mattino dell’arrivo dell’arciduca, si piazzarono a intervalli in vari punti del lungofiume. Avevano legate alla cintola bombe non più grandi di saponette, con detonatori a capsula e spolette chimiche da dodici secondi, e in tasca delle pistole cariche. Quest’abbondanza di armi e di manodopera era essenziale per il successo dell’impresa. Se uno degli uomini fosse stato perquisito e arrestato, o semplicemente non fosse riuscito ad entrare in azione, un altro era pronto a prenderne il posto. Ognuno di essi aveva con sé una bustina contenente polvere di cianuro, con cui togliersi la vita una volta compiuto il delitto.

Le misure di sicurezza ufficiali brillavano per la loro assenza. Nonostante gli avvertimenti che indicavano la probabilità di un atto terroristico, l’arciduca e sua moglie viaggiarono su un’auto scoperta lungo un percorso affollato di gente e del tutto prevedibile. La barriera di soldati che solitamente in queste occasioni veniva allineata lungo i marciapiedi non era presente in nessun punto, tanto che la vettura passava praticamente priva di protezione davanti a una fitta folla. Mancavano perfino disposizioni di sicurezza particolari: il capo del servizio era salito per sbaglio su una delle auto con tre ufficiali bosniaci locali, lasciando il resto dei suoi uomini indietro, alla stazione ferroviaria.

Stranamente, l’arciduca e sua moglie non apparivano affatto preoccupati per la loro sicurezza. Venivano da tre giorni di soggiorno nella cittadina di vacanze di Ilidze, dove non avevano incontrato che facce amiche. Avevano perfino avuto il tempo per un’imprevista visita al bazar di Sarajevo, dove avevano potuto muoversi senza essere disturbati nelle viuzze affollate di gente. Non sapevano che Gavrilo Princip, il giovane serbo-bosniaco che li avrebbe uccisi solo tre giorni dopo, era anch’egli lì, intento a seguire i loro movimenti. Durante una cena a Ilidze, l’ultima sera prima di prendere il treno per Sarajevo, Sofia incontrò il leader croato bosniaco dottor Josip Sunaric, il quale aveva consigliato alle autorità locali di non portare la coppia in Bosnia in un momento che per i serbi era di intensa emozione nazionalista. «Mio caro dottor Sunaric», gli disse, «dopo tutto vi siete sbagliato [...]. Dovunque siamo andati, tutti, fino all’ultimo serbo, ci hanno accolto dando prova di sì grande amicizia, gentilezza e autentico calore, che siamo felicissimi della nostra visita». Francesco Ferdinando era in ogni caso noto per la sua insofferenza alle misure di sicurezza, e voleva che l’ultima parte del suo viaggio bosniaco avesse un sapore decisamente rilassato e civile. Aveva passato gli ultimi giorni recitando il ruolo di ispettore generale delle manovre dell’esercito nelle vicine colline bosniache; ora desiderava recarsi fra i suoi futuri sudditi in veste di erede al trono asburgico.

Inoltre, cosa più importante di tutte, il 28 giugno era l’anniversario di matrimonio di Francesco Ferdinando e di Sofia. Nonostante i numerosi ostacoli che l’etichetta di corte asburgica aveva loro frapposto, l’arciduca e sua moglie avevano fin dall’inizio avuto una vita familiare estremamente serena. Sposare la «mia Sofia» era stata la cosa più intelligente che aveva fatto in vita sua, confidò Francesco Ferdinando a un amico nel 1904. Lei era «tutta la sua felicità», e i loro figli erano «tutta la sua gioia e il suo orgoglio». «Me ne sto con loro e li ammiro tutto il giorno, perché li amo così tanto». Non c’è ragione di credere che il calore di questa relazione – un elemento insolito nel contesto dei matrimoni dinastici di quel tempo – si fosse in qualche modo attenuato all’epoca della loro visita a Sarajevo. Sofia aveva insistito per poter rimanere al fianco del marito nel giorno del loro anniversario, e c’era senza dubbio uno speciale piacere nel fatto che in quell’attraente ed esotico avamposto dell’Impero austro-ungarico essi potessero officiare insieme in un modo che a Vienna era spesso impossibile.

Le auto sfilavano davanti a case e negozi addobbati con bandiere bosniache rosse e gialle, dirigendosi verso il sarajeviano Muhamed Mehmedbašic, che aveva preso posizione presso il Ponte Cumurja. Quando intorno a lui partirono gli applausi, l’uomo si preparò ad innescare e a gettare la bomba che aveva con sé. Fu un momento di tensione, perché una volta rotta la capsula d’innesco – operazione che di per sé produceva un forte rumore – non si poteva tornare indietro, bisognava lanciare la bomba. Mehmedbašic riuscì a liberare la bomba dalla fascia in cui era avvolta, ma all’ultimo momento pensò di sentire qualcuno dietro di sé – forse un poliziotto – che stava intervenendo, e rimase paralizzato dal terrore, come gli era avvenuto quando fallì l’attentato a Oskar Potiorek sul treno, nel gennaio di quell’anno. Le auto sfilarono. Il successivo attentatore in attesa sul percorso era il serbo-bosniaco Nedeljko Cabrinovic, che si era appostato sul viale dalla parte del fiume e fu il primo ad entrare in azione. Presa la sua bomba, spaccò il detonatore contro il palo di un lampione. Sentendo il colpo secco della capsula di percussione, la guardia del corpo dell’arciduca, il conte Harrach, pensò che fosse scoppiato un pneumatico, ma il guidatore vide la bomba volare per aria verso l’auto e schiacciò l’acceleratore. Non è chiaro se l’arciduca stesso vedesse la bomba e cercasse di respingerla con una mano, o semplicemente se l’ordigno rimbalzasse sopra il tessuto ripiegato della capote alle spalle dei passeggeri. Ad ogni modo, la bomba mancò l’obiettivo, cadde in terra ed esplose sotto la macchina successiva, ferendo diversi degli ufficiali che vi si trovavano e scavando una buca nella strada.

L’arciduca reagì a questo incidente con stupefacente sangue freddo. Guardando indietro, poté vedere che il terzo veicolo era stato costretto a fermarsi. L’aria era densa di polvere e fumo, e risuonava ancora per la forza dell’esplosione. Una scheggia aveva ferito Sofia a una guancia, ma per il resto la coppia era illesa. I passeggeri della terza auto erano feriti, ma vivi; alcuni stavano tentando di scendere. Il ferito più grave era l’aiutante del generale Potiorek, il colonnello Erik von Merizzi, il quale, sebbene cosciente, sanguinava copiosamente dalla testa. Anche diverse persone del pubblico erano rimaste ferite.

Non appena Cabrinovic ebbe gettato la sua bomba, ingerì la polvere di cianuro che portava con sé, e si gettò dal parapetto giù nel Miljacka. Nessuna di queste azioni conseguì l’effetto previsto. Il veleno era di cattiva qualità, e non fece altro che bruciargli la gola e le pareti dello stomaco, senza tuttavia ucciderlo e neppure fargli perdere i sensi. E a causa della calura estiva, il livello dell’acqua del fiume era troppo basso perché annegasse o fosse trascinato via dalla corrente. Così, dopo un volo di più di otto metri, Cabrinovic cadde sulla sabbia affiorante ai lati del letto del fiume, dove venne prontamente immobilizzato da un negoziante, un barbiere armato con una pistola e due ufficiali di polizia.

Invece di lasciare immediatamente la zona a rischio, l’arciduca rimase ad assistere alle cure prestate ai feriti e quindi ordinò che il corteo di auto continuasse fino al municipio nel centro della città e poi percorresse di nuovo il lungofiume, in modo che lui e sua moglie potessero far visita ai feriti in ospedale. «Via», disse, «quell’uomo è chiaramente un folle; andiamo avanti con il nostro programma». Il corteo si rimise in moto, con i guidatori delle ultime vetture che procedevano con cautela passando intorno alla carcassa fumante della terza auto. Agli altri assassini, che erano ancora in attesa al loro posto, fu quindi concessa ogni opportunità per completare l’opera. Ma erano giovani e inesperti; tre di loro non riuscirono a mantenere i nervi saldi quando l’auto dell’arciduca si avvicinò a loro. Vaso Cubrilovic, il più giovane dei terroristi, restò all’ultimo momento paralizzato come Mehmedbašic – a quanto pare perché rimase sconcertato nel vedere che la moglie dell’arciduca gli sedesse a fianco nella vettura imperiale. «Non ho tirato fuori la pistola perché ho visto che c’era la duchessa», avrebbe ricordato in seguito; «Mi dispiaceva per lei». Cvijetko Popovic fu a sua volta preso dalla paura. Rimase al suo posto, pronto a scagliare l’ordigno, ma non riuscì a farlo perché «pers[e] il coraggio all’ultimo momento quando scors[e] l’arciduca». Quando sentì lo scoppio della bomba di Cabrinovic, Popovic si precipitò verso l’edificio della Prosvjeta, una società culturale serba, e nascose la sua bomba dietro una scatola nel sottosuolo.

Gavrilo Princip fu dapprima colto alla sprovvista. Sentendo l’esplosione, suppose che il complotto avesse avuto successo. Corse verso la posizione di Cabrinovic, giusto in tempo per vederlo portar via da chi l’aveva catturato, piegato in due dalla sofferenza per il veleno che gli bruciava la gola. «Vidi immediatamente che non c’era riuscito e che non era stato capace di avvelenarsi. Avevo intenzione di sparargli rapidamente con la mia pistola. In quel momento le auto partirono». Princip abbandonò l’idea di uccidere il suo complice e rivolse la propria attenzione al corteo di auto, ma quando riuscì a vedere l’arciduca – inconfondibile con il suo elmetto adorno di piume di struzzo color verde acceso –, l’auto aveva una velocità troppo sostenuta per poter colpire a colpo sicuro. Princip mantenne la calma, fatto di per sé straordinario in quelle circostanze. Rendendosi conto che la coppia sarebbe presto tornata sul posto, assunse una nuova posizione, sul lato destro della via Franz Josef, lungo il percorso dal quale, come annunciato, il corteo di auto avrebbe lasciato la città. Trifko Grabež aveva abbandonato la propria postazione per andare a cercare Princip, rimanendo intrappolato in mezzo al movimento della folla dopo la prima esplosione. Quando il corteo di auto lo superò, nemmeno lui entrò in azione, probabilmente per paura, anche se in seguito avrebbe affermato che la folla era così fitta che non gli riuscì di tirar fuori la bomba che aveva sotto i vestiti.

In un primo momento, sembrò che l’arciduca avesse avuto ragione ad insistere per rispettare il programma. Il corteo di auto raggiunse la sua destinazione, il municipio di Sarajevo, senza ulteriori incidenti. A questo punto ci fu un intermezzo tragicomico. Spettava al sindaco, Fehim Effendi Curcic, tenere il consueto discorso di benvenuto agli augusti ospiti. Dalla sua posizione all’inizio del corteo, Curcic sapeva che la giornata si era già messa molto male, e che l’innocuo testo che aveva preparato era ormai del tutto inadeguato alla situazione, ma era anche troppo nervoso per improvvisare un’alternativa o anche solo per modificare le proprie parole in modo da tener conto di quel che era appena successo. In uno stato di grande agitazione, e sudando copiosamente, si fece avanti per tenere il suo discorso, che conteneva perle come questa: «Tutti i cittadini della capitale Sarajevo sentono i loro animi colmi di gioia, e salutano con sommo entusiasmo l’illustrissima visita delle Vostre Altezze con il più cordiale benvenuto [...]». Aveva appena cominciato, che venne interrotto da un furioso intervento dell’arciduca, la cui rabbia e il cui spavento, trattenuti fin dal momento dell’incidente, ora esplodevano: «Vengo qui come vostro ospite e voi mi accogliete con delle bombe!». Nel terribile silenzio che seguì, si poté vedere Sofia bisbigliare all’orecchio del marito. Francesco Ferdinando riprese la calma: «Bene, potete parlare». Una volta che il sindaco fu riuscito, con fatica, a giungere alla fine del suo discorso, ci fu un’altra pausa, dovuta alla scoperta che i fogli contenenti il testo della replica preparata da Francesco Ferdinando erano macchiati dal sangue dell’ufficiale ferito della terza auto. Francesco Ferdinando pronunciò un garbato discorso, nel quale fece un discreto accenno agli eventi della mattina: «La ringrazio cordialmente, signor sindaco, per le fragorose ovazioni con cui la popolazione ha ricevuto me e mia moglie, tanto più che in esse vedo un’espressione di sollievo per il fallimento dell’attentato omicida». Ci furono alcune espressioni conclusive in serbo-croato, con cui l’arciduca chiese al sindaco di farsi portatore dei suoi migliori saluti al popolo della città.

Dopo i discorsi, era giunto il momento che la coppia si separasse. Il programma prevedeva che Sofia incontrasse una delegazione di donne musulmane in una stanza al primo piano del municipio. Gli uomini non vi erano ammessi, per consentire alle donne di togliersi il velo. La stanza era calda e angusta, e la duchessa apparve cupa e preoccupata al pensiero dei suoi bambini; vedendo una bambinetta che aveva accompagnato sua madre all’incontro, disse: «Guarda, questa bambina è alta più o meno come la mia Sofia». In un altro momento disse che lei e il marito erano impazienti di ricongiungersi ai figli – «non abbiamo mai lasciato i nostri bambini da soli per così tanto tempo». Nel frattempo all’arciduca, che aveva dettato un telegramma all’imperatore assicurandolo che entrambi stavano bene, veniva mostrato l’atrio del municipio. Lo choc degli eventi del mattino sembrava non fosse passato: parlava con una «buffa ed esile vocina», ricordò poi uno dei presenti; «camminava in modo quasi grottesco, sollevando alta e rigida una gamba dopo l’altra, come se stesse marciando al passo dell’oca. Immagino volesse dimostrare di non essere intimidito». Ci fu qualche battuta su Potiorek, per il clamoroso fallimento delle sue misure di sicurezza.

Come avrebbe dovuto procedere la visita? Il piano originario prevedeva di spostarsi in auto per un breve tragitto a ritroso sul lungofiume per poi imboccare a destra, subito dopo il bazar, la via Franz Josef, fino al Museo Nazionale. L’arciduca chiese a Potiorek se ritenesse probabile un ulteriore attacco. Secondo la sua stessa testimonianza, Potiorek rispose in modo scoraggiante che «sperava di no, ma anche con qualsiasi possibile misura di sicurezza, non si sarebbe potuto impedire un colpo scagliato a distanza così ravvicinata». Per non rischiare, Potiorek propose di cancellare la parte restante del programma e di uscire direttamente dalla città recandosi nuovamente a Ilidze, o in alternativa al palazzo in cui risiedeva il governatore, il Konak, e da lì fino alla stazione ferroviaria Bistrik sulla riva sinistra del fiume. Ma l’arciduca volle visitare l’assistente di Potiorek ferito, che era ricoverato nell’ospedale della guarnigione militare nella periferia occidentale della città. Si concordò che la visita al museo sarebbe stata cancellata, e che il corteo di auto dovesse procedere dritto sul lungofiume Appel e non dalla via Franz Josef, dove avrebbe potuto trovarsi in attesa un eventuale altro assassino. Il piano originale prevedeva che a quel punto la coppia si separasse, perché l’arciduca andasse al museo e la signora si recasse al palazzo del governatore. Ma Sofia prese l’iniziativa, e davanti a tutto il seguito annunciò al marito: «Verrò con voi all’ospedale». Per sicurezza, il conte Harrach decise di rimanere in piedi sul predellino del lato sinistro dell’auto (dalla parte del fiume), nel caso dovesse esserci un nuovo attacco.

La fila di automobili lasciò il palazzo e attraversò nuovamente la città, questa volta in direzione ovest, mentre la calura aumentava. Ma nessuno aveva pensato ad informare gli autisti del cambiamento di itinerario. Quando passarono dal quartiere del bazar, il veicolo di testa svoltò a destra per via Franz Josef, e l’auto che trasportava Francesco Ferdinando e Sofia la seguì. Potiorek sgridò l’autista: «È la strada sbagliata! Dobbiamo prendere il lungofiume Appel!». Il motore venne messo in folle e l’auto (che non aveva la marcia indietro) fu spinta lentamente a ritroso verso la strada principale.

Fu il momento di Gavrilo Princip. Egli si era messo di fronte a un negozio sul lato destro di via Franz Josef, e riuscì a riprendere la macchina, che aveva rallentato fin quasi a fermarsi. Non potendo liberare in tempo la bomba che aveva legata in vita, estrasse la pistola e fece fuoco due volte a bruciapelo, mentre Harrach, in piedi sul predellino dell’auto, guardava sconvolto. Come sappiamo dalla successiva testimonianza di Princip, mentre egli usciva dall’ombra delle tende del negozio per raggiungere l’obiettivo, il tempo sembrò rallentare. La vista della duchessa lo fece soffermare un momento: «Quando vidi che seduta accanto a lui c’era una signora, fui invaso da una strana sensazione [...]». La testimonianza di Potiorek trasmette un analogo senso di irrealtà: il governatore ricordava di essere rimasto fermo a sedere nell’auto, osservando in faccia l’omicida mentre i colpi venivano esplosi, senza però vedere né il fumo né il bagliore della canna, e di aver sentito solo degli spari attutiti, che parevano provenire da lontano. Dapprima sembrò che lo sparatore avesse fallito il bersaglio, perché Francesco Ferdinando e sua moglie rimasero immobili e ritti nei loro sedili. In realtà, erano già entrambi morenti. La prima pallottola aveva attraversato la porta dell’auto colpendo la duchessa all’addome e recidendole l’arteria dello stomaco; la seconda aveva colpito l’arciduca al collo, recidendogli la giugulare. Mentre la macchina rombava via attraversando il fiume e dirigendosi verso il Konak, Sofia si inclinò su un lato finché cadde con il volto sulle ginocchia del marito. Inizialmente Potiorek pensò che fosse svenuta per lo choc; solo quando vide il sangue uscire dalla bocca dell’arciduca si rese conto che era successo qualcosa di più serio. Il conte Harrach, ancora in piedi, sporgendosi sullo scomparto passeggeri, riuscì ad afferrare l’arciduca per il colletto e a mantenerlo in posizione eretta. Sentì Francesco Ferdinando pronunciare con voce flebile parole che sarebbero diventate famose in tutta la monarchia: «Sofia, Sofia, non morire, vivi per i nostri figli!». L’elmetto con le grandi piume di struzzo verdi gli scivolò dalla testa. Quando Harrach gli chiese se aveva dolore, l’arciduca sussurrò diverse volte «Non è niente!», quindi perse conoscenza.

Dietro il veicolo che si stava allontanando, la folla si chiuse intorno a Gavrilo Princip. La pistola gli venne fatta cadere dalle mani mentre stava per puntarsela alla tempia per suicidarsi. Così tentò di ingerire la dose di cianuro, senza però riuscirvi. Venne picchiato, preso a calci e colpito con bastoni da passeggio dalla folla che lo circondava; sarebbe stato linciato sul posto se gli ufficiali di polizia non fossero riusciti a trascinarlo in carcere.

Sofia era già morta quando arrivarono al palazzo Konak, e la coppia venne portata di corsa in due camere al primo piano. Francesco Ferdinando era in stato comatoso. Il suo segretario, il conte Morsey, che era corso lì dalla scena del delitto per raggiungere l’arciduca, cercò di facilitargli il respiro tagliandogli l’uniforme sul davanti. Il sangue schizzò fuori, macchiando i polsini gialli dell’uniforme del cameriere. Inginocchiandosi a fianco del letto, Morsey chiese a Francesco Ferdinando se avesse un messaggio da portare ai suoi bambini, ma senza risposta; le labbra dell’arciduca stavano già irrigidendosi. Fu una questione di minuti, poi i presenti dovettero constatare che l’erede al trono era morto. Erano da poco passate le 11 del mattino. Quando la notizia si diffuse dal palazzo, in tutta Sarajevo le campane cominciarono a suonare a morto.

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