L’AMERICA ODIA PIÙ LA RUSSIA DELL’UNIONE SOVIETICACarta di Laura Canali – 2016 Rispetto alla guerra fredda, l’ostilita` si e` diffusa tra la popolazione ed e` diretta non piu` solo al governo rivale, ma anche alla sua gente. Tanta animosita` incidera` sull’approccio di Washington a Mosca. La distanza tra la realta` russa e come gli americani se la raccontano. Da tempo gli americani provano sentimenti complicati nei confronti della Russia e dei russi. Era così nel XX secolo (e anche prima), lo è ancora nel XXI. Tutte le nazioni occidentali ne provano di simili nei riguardi di questo paese-continente, di cui percepiscono sempre una certa distanza in termini di sviluppo sociale. Spesso le loro rappresentazioni della Russia oscillano tra la sfiducia e il paternalismo e la usano come «altro» utile a perseguire i propri interessi. Il caso statunitense è però specifico e diverso perché l’America, pur non essendo più l’unica potenza mondiale, non è affatto disposta ad accettare un sistema multipolare in cui attori come Cina e Russia si permettano di ignorare apertamente le sue preferenze. Gli americani non sanno come maneggiare la Russia postsovietica. Era facile definire l’Urss, animata dal credo marxista-leninista, come «altro» e nemico. Specialmente dopo Josif Stalin, l’Unione Sovietica era osservata unicamente attraverso le lenti della minaccia militare. La guidavano leader ombrosi (fatta eccezione per il vulcanico Nikita Khrušcëv), la sua società restava poco conosciuta, il suo sistema autoritario e il suo dirigismo economico sembravano la conseguenza inevitabile del dispotismo asiatico. Per gli americani, costituiva un autentico pericolo politico-militare, ma in tutti gli altri aspetti non era granché considerata. La Russia odierna è più difficile da caratterizzare. Ha abbracciato il capitalismo, ha rinunciato all’ideologia comunista, vi circolano liberamente cultura e idee occidentali, si è aperta a molte peculiarità dell’ex campo avversario, sono all’opera pressioni dal basso che suggeriscono un sistema politico complesso. Eppure, con l’ombra potente di Vladimir Putin che si proietta sul paese, con un forte e dichiarato nazionalismo e con una politica estera sempre più assertiva, è facile per gli americani scorgere nella Russia il tradizionale avversario minaccioso. È stato osservato che «l’ostilità verso la Russia è la più antica tradizione di politica estera in vigore ancora oggi negli Stati Uniti» 1. Questa ostilità è tornata ai massimi livelli. La riemersione di Mosca, l’atteggiamento sicuro di sé di Putin e il suo diffuso sostegno domestico hanno prepotentemente riportato in superficie l’animosità americana. Cruciale, questo sentimento è condiviso dai decisori e dall’opinione pubblica e arriva ai picchi osservati durante la guerra fredda, almeno a giudicare quello che traspare dalla retorica e dalla prossemica. A renderlo particolarmente preoccupante è il fatto che oggi sia condiviso dalle rispettive popolazioni. Mentre un tempo le opinioni pubbliche americana e russa erano in grado di distinguere fra il governo dell’avversario e la sua gente, riservando al primo ostilità e alla seconda giudizi positivi. Ora invece anche la popolazione del rivale è oggetto di valutazioni negative. Sebbene lodino le figure più critiche del regime russo come Aleksej Naval’nyj o l’ex campione di scacchi Garri Kasparov, gli americani si scagliano persino contro esponenti del mondo culturale come il soprano lirico Anna Netrebko o il direttore d’orchestra Valerij Gergiev quando sostengono le cause russe, come il soccorso agli orfani nelle repubbliche separatiste ucraine. Ci si accorge che gli eccessi retorici hanno raggiunto un livello pericoloso quando Michael McFaul, già ambasciatore americano a Mosca, uno che si è costruito una carriera demonizzando la Russia, avverte che è il caso di calmare gli animi. 2. L’ostilità americana verso la Russia risale al XIX secolo. È noto che Alexis de Tocqueville aveva individuato in essa e negli Stati Uniti le due grandi potenze in ascesa, diverse dall’Europa e in grado di rivaleggiare con il Vecchio Continente. Tuttavia, aveva notato pure profonde differenze fra i due emergenti. I suoi scritti suggeriscono che America e Russia sarebbero state rivali, anche se niente le aveva mai messe l’una contro l’altra dal punto di vista territoriale, etnico o religioso. Nel XX secolo si sono alleate nelle guerre contro la Germania, ma i giudizi sull’autoritarismo, sui valori sociali, sull’adozione del marxismo hanno sempre mantenuto gli americani sospettosi verso l’Unione Sovietica. L’alleanza con «zio Joe» Stalin durante la seconda guerra mondiale ha avuto vita breve. Parallelamente, gli statunitensi hanno sempre avuto un’opinione negativa della sinistra politica, specialmente di quella ispirata dal marxismo. La rivoluzione russa e tutto quello che l’aveva accompagnata erano considerati dannosi. Non sorprende che Washington sia stata l’ultima cancelleria occidentale a riconoscere l’Urss – nel 1933 sotto il presidente Franklin Delano Roosevelt. Ancora nel XXI secolo, l’esperienza sovietica resta viva per molti americani come esempio iconico di malvagità. La descrizione dell’Unione Sovietica come «impero del male», cortesia di Ronald Reagan, continua a echeggiare nelle orecchie della gente e qualche volta la si riferisce alla Russia di Putin. Al contrario, gli Stati Uniti hanno trovato agilmente intendimenti con l’estrema destra e il fascismo. Al di là della sfida esistenziale con il nazismo di Adolf Hitler, hanno spesso saputo convivere molto bene con regimi destrorsi. Per esempio, non si sono fatti molti problemi con la riemersione di elementi fascisti o neonazisti a Kiev dopo il rovesciamento nel 2014 del governo filorusso. Anzi, il rampante antisemitismo nell’Ucraina post-Jevromajdan è ignorato o addirittura attivamente negato. Ho scritto in passato su Limes che, dopo la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno faticato a riconoscere gli interessi geostrategici russi in Eurasia e nel pianeta in quello che viene definito «nuovo ordine mondiale» 2. Oggi che la rivalità russo-americana si gioca principalmente all’interno della sfera d’influenza storica di Mosca, in particolare nei territori ex sovietici, la Russia ha reagito con assertività e aggressività. L’espansione a est della Nato negli anni Novanta era inevitabile, ma la rimozione del governo filorusso a Kiev e la prospettiva di basi Nato sul suolo ucraino non erano sopportabili per il Cremlino. I limiti di spazio impongono di escludere un’analisi di come Putin abbia «perso» l’Ucraina nel 2014, smacco rimediato solo parzialmente tirando la Crimea nella Federazione Russa e sostenendo le due province separatiste di Donec’k e Luhans’k. Ma le operazioni ucraine e la reazione del 2008 all’attacco delle forze georgiane a Ossezia del Sud e Abkhazia sono solo alcune delle mosse di Mosca che hanno rafforzato negli americani l’idea di una Russia minacciosa e pericolosa. Ora, ad anni Venti appena iniziati, le percezioni negative sulla Russia hanno ampia diffusione e sono non solo ben radicate ma la loro presa sull’opinione pubblica si sta approfondendo. L’ostilità americana oggi supera l’incertezza e lo scetticismo provati negli anni Ottanta per Mikhail Gorbacëv e nei torbidi anni Novanta per Boris El’cin. Ma in quei decenni Mosca era in evidente declino, il decadimento domestico aveva i contorni dello Stato fallito, il dirigismo economico era allo sbando, la retorica era difensiva e il governo faticava a gestire alcune regioni ribelli, come la Cecenia. Senza rivisitare la complicata storia delle relazioni russo-americane negli anni di Putin, è sufficiente notare l’importanza di un leader forte che ha consolidato il potere e imbastito una struttura di governo. Ciò ha svolto diverse funzioni: a) supervisionare la restaurazione dello Stato federale russo; b) guidare la ripresa di un’economia che torna ad avvicinarsi a quella della Germania in termini di pil assoluto; c) rimettere assieme un minimo di assistenza sociale per dare alla cittadinanza un tangibile miglioramento della qualità della vita 3; d) puntellare la fiducia della nazione in sé stessa, a livello collettivo e individuale 4. Eppure queste realtà della Russia di Putin sono sconosciute agli americani. I quali parlano di un’economia a pezzi, di una popolazione terrorizzata da un potere sempre più autoritario e di un’attesa collettiva che un presunto democratico come Naval’nyj contenda il potere a Putin. Le percezioni di Naval’nyj sono un buon indicatore della profonda faglia che divide le rispettive opinioni pubbliche sulla condizione attuale della comunità politica russa. Gli americani lo vedono come un combattente per la libertà, come un attivista dei diritti umani capace di dare la propria vita per salvare il paese dall’autoritarismo putiniano. I russi invece lo hanno soprannominato «Aleksej 2%» perché ha tassi d’approvazione a cifra singola nei sondaggi e lo considerano un imprenditore di sé stesso sempre meno a contatto con la realtà quotidiana del paese. Il documentario di Naval’nyj del 2021 sul «palazzo di Putin», definito «la più grande mazzetta nella storia del mondo» è un caso suggestivo. Visto da oltre 20 milioni di russi, pare che la durata della visualizzazione sia stata di 20 minuti sull’ora e cinquanta totale: gli utenti evidentemente hanno spento una volta vista l’assenza di prove tangibili 5. Quando Naval’nyj si candidò a sindaco di Mosca nel 2013, ottenne un impressionante 27% dei suffragi. Quello fu probabilmente il picco della sua popolarità in Russia, da allora in declino. Al contrario, i commentatori americani ne parlano come della principale minaccia politica per il regno di Putin, alcuni addirittura come possibile futuro presidente. In verità, le minacce interne alla squadra putiniana esistono e sono profonde, ma provengono dai nazionalisti estremi, alcuni a destra e altri a sinistra. La riemersione alla potenza della Russia ha portato con sé un maggiore patriottismo, prestando il fianco ad atteggiamenti nazionalisti e addirittura gingoisti, una sfida assai più rilevante per la cerchia dell’attuale presidente. 3. Come hanno fatto le percezioni americane della Russia putiniana a diventare così ostili, al punto che anche i tradizionali critici di Mosca invitano alla cautela e a smorzare la retorica? In sostanza, l’estrema animosità origina dall’ampio divario che si è aperto fra la realtà interna alla Federazione e le fuorvianti ed eccessive caratterizzazioni e interpretazioni della stessa. La Russia di oggi ha molti problemi: il suo sistema politico guidato da un «leader apicale» (o secondo alcuni da un «uomo forte») è difficilmente qualificabile come democratico; l’economia ha profonde lacune strutturali; la società è segnata dalla corruzione; la popolazione è frustrata dal fatto che le condizioni economiche non siano ulteriormente migliorate. Nel frattempo, ogni espressione degli interessi della potenza russa, specie se attraverso la forza e nello spazio ex sovietico, ha naturalmente alimentato lo scetticismo e le preoccupazioni degli osservatori esterni, se non addirittura il loro sdegno e la loro propensione a reagire. Ma gonfiare i pur reali problemi della Russia non fa altro che esagerare i tradizionali giudizi negativi degli americani. Più li si gonfia, più l’ostilità statunitense cresce e si approfondisce. La Russia distorta presentata dall’establishment all’opinione pubblica oscura i progressi di un paese che ha voltato pagina rispetto al 1991, che ha raggiunto dei traguardi esattamente come non ha ancora risolto certi problemi, che offre sia promesse sia sfide. La tabella fissa undici importanti aspetti della realtà russa, molti interni, alcuni riguardanti la politica estera o di sicurezza. La colonna di sinistra presenta la mia valutazione, basata su opinioni correnti nella società russa, mentre la colonna di destra fornisce in breve la versione iperbolica che pervade la percezione americana. Osservando la colonna dell’iperbole, notiamo una serie di condizioni e comportamenti di cui tutti noi americani siamo perfettamente a conoscenza. Il quadro d’insieme è penoso. Un Putin dittatoriale, che gestisce tutti gli aspetti della vita quotidiana, ignora senza scrupoli le preferenze popolari, trucca le elezioni, si dota di un’opposizione pro forma. Uccide gli oppositori veri e i giornalisti che criticano il regime; il resto dei media è completamente controllato. Le pressioni dal basso non esistono, il fermento sociale è a zero e ogni sondaggio che indica apprezzamento popolare è falsato. L’economia contemporanea è di stampo sovietico e puramente estrattiva, oppure alimentata dall’industria bellica. I pochi profitti che si fanno sono rubati dalla corrotta alleanza fra Putin e oligarchi, i quali dominano ogni aspetto della vita sociale. Infine, per quanto riguarda la politica estera, la Russia ha invaso l’Ucraina dopo che gli abitanti di quest’ultima si erano uniti per rovesciare un regime filomoscovita nel 2014. La realtà diverge assai da questa caratterizzazione da cartone animato e da questa semplificazione orientata dall’ideologia. In realtà, la Russia possiede un sistema decisionale centralizzato, una forte verticale del potere, basata sulla costituzione di El’cin del 1994 che legittima una presidenza molto potente, «egemonica». L’ufficio presidenziale è occupato da una figura popolare che, contrariamente da chi l’ha preceduta, è supportata da un’ampia maggioranza. La sua cerchia ha sì una considerevole influenza sul processo elettorale, ma il voto è regolare e vi si presentano diversi candidati dotati di apprezzabile seguito, nonostante la piattaforma putiniana, Russia Unita, sia molto avvantaggiata. Il Cremlino esercita certamente pressioni sull’opposizione e sui media, specialmente su quelli federali. I giornalisti in Russia muoiono, ma in zone violente oppure investigando su casi di corruzione e comunque il numero di coloro che vengono uccisi svolgendo il proprio lavoro è nettamente calato rispetto agli anni Novanta. Ne muoiono di più ogni anno nei democratici Messico e India che in Russia; dal 2017 ne sono deceduti di più di cittadinanza americana (sei) che russa (cinque) mentre svolgevano la propria attività 6. Lo Stato gode altresì di un alto profilo nella società e nell’economia, ma l’attivismo sociale è considerevole in aree che i russi ritengono importanti. L’economia è regolata ma va diversificandosi. La scena è ovviamente dominata dagli oligarchi, che se fossero statunitensi verrebbero descritti come ricchi uomini d’affari. Che queste figure abbiano accesso a Putin non sorprende; che invece gli dettino le decisioni è una conclusione grossolana come l’idea che George Soros o i fratelli Koch dettino le decisioni alla Casa Bianca. Nel frattempo, Mosca è tornata a difendere i propri interessi nella storica sfera d’influenza russa e non c’è dubbio che sia intervenuta pesantemente in Ucraina. Gli eventi che hanno portato al colpo di Stato del 2014 sono assai complicati: l’estromissione di un presidente dotato di mandato costituzionale e di parlamentari filorussi, letteralmente trascinati fuori dall’assemblea e gettati nei cassonetti, meriterebbe come minimo un articolo della lunghezza di un saggio per iniziare a spiegarla. Basti notare che il paese era grossomodo diviso tra una metà filo-occidentale e una filorussa, con l’Ucraina centrale e occidentale generalmente a favore del golpe e l’Ucraina orientale e meridionale generalmente contraria. La Crimea era l’unica regione che godesse del diritto costituzionale di secessione e, con la paura che a Kiev emergesse un governo antirusso, le autorità locali si sono apprestate a secedere, invitando i russi a entrare. L’ingresso dei «piccoli uomini verdi» in Crimea rifletteva il timore di Mosca per la salvaguardia dei propri interessi locali, perché nessun governo al Cremlino avrebbe mai potuto accettare basi Nato nella penisola. La mia intenzione qui non è difendere l’operato dei russi, ma spiegare che gli eventi del 2014 hanno diverse sfaccettature e chiavi interpretative. Le spiegazioni semplicistiche non danno alcun contributo alla comprensione delle dinamiche in corso, servono soltanto a gonfiare ulteriormente le impressioni negative sulla Russia e sulle sue azioni. 4. Riassumendo, sono molti i fattori storici e recenti che spiegano l’estrema ostilità polemico-retorica degli americani nei confronti della Russia di Putin. Tale animosità eguaglia e forse addirittura sorpassa quella espressa verso l’Unione Sovietica nell’epoca di Brežnev, specialmente perché ora include anche la popolazione e la società russe, non solo il governo. Dopo i caotici e incoerenti sforzi dell’amministrazione Trump, il ritorno di una linea politica più stabile e prevedibile sotto Biden può generare una modesta riduzione delle tensioni fra le due nazioni. La nuova amministrazione ha permesso il completamento dell’importante gasdotto Nord Stream 2 e, benché abbia adottato una retorica molto dura nei confronti di Putin, non ha ancora incrementato in modo significativo il sostegno militare all’Ucraina. Una simile mossa comunicherebbe alla Russia l’intenzione di alzare il livello del confronto e potrebbe avere conseguenze pericolose. Inoltre, su alcuni dossier sensibili, come il cambiamento climatico o lo sviluppo di energia atomica in Iran, Russia e Stati Uniti possono tornare a sedersi a un tavolo negoziale. La cerchia di Biden dovrà gestire con perizia l’aumentata ostilità interna verso Mosca. Questo fattore emotivo potrebbe costituire un cruciale vincolo per l’amministrazione americana. La russofobia e gli insulti a Putin hanno esercitato una grande influenza sull’elaborazione dell’approccio a Mosca. Tale aspra retorica continuerà ad avere spazio. Solo il tempo ci dirà se emergeranno condizioni tali da alterare un’atmosfera troppo carica di tensione antirussa. A oggi, non abbiamo idea di come ciò possa realisticamente accadere.* (traduzione di Federico Petroni) Note: 1. P. Berman, «Anti-Russia: Liberty and servitude in the new philo-czarist age», Tablet Magazine, 10/1/2017. 2. J.P. Willerton, «Mosca è nostra nemica perché non la capiamo», Limes, «La terza guerra mondiale?», n. 2/2016, pp. 115-122. 3. J.P. Willerton, «Russian Public Assessments of the Putin Policy Program: Achievements and Challenges», Russian Politics, n. 1, 2016, pp. 131-158. 4. J.P. Willerton, M. Beznosov, M. Carrier, «A Russian National Idea and the International System», Journal of Political Research, n. 5, 2021, in uscita. 5. Il documentario è disponibile al link bit.ly/3FUoNOd 6. Si vedano i dati del Committee to Protect Journalists (1992-2021), disponibili all’indirizzo bit.ly/2Zz1MRF * Si ringraziano Mikhail Beznosov, Dan Detzi e Faten Ghosn per le loro argute riflessioni su questo articolo. |